8 Settembre 2023

Partire dal centro. Festa del borgo storico di Cengio Alto 8-10 settembre 2023

Nel marzo 2023 sono iniziati i lavori di riqualificazione del Borgo di Cengio Alto. L’ambizioso progetto di recupero del patrimonio storico su cui il Comitato locale e le Associazioni di volontari lavorano assiduamente insieme alle Amministrazioni Comunali da circa 25 anni è iniziato. E’ Iniziato partendo dal centro della piazza che torna ad essere piazza abbandonando la parentesi di olbio della propria identità in cui è stata per lungo tempo un’ insipido parcheggio per automobili. Nei giorni della tradizionale Festa Patronale dedicata alla Natività di Maria 8-10 settembre 2023 gli abitanti di Cengio potranno celebrare questo nuovo inizio da cui l’anima del paese trarrà energia e forza per le sfide future.

Un nuovo inizio che parte dal Centro.

Sopraluogo delle autorità per la riqualificazione della piazza di Cengio Alto – Marzo 2023 – Foto S.J.R

QUI IL PROGRAMMA DEI FESTEGGIAMENTI

CENNI STORICI

L’antico borgo di Cengio Alto, sede del comune di Cengio fino al 1910 sorge su una delle alture che sovrastano la piana di Millesimo. Ci troviamo a 530 metri sul livello del mare ancora in provincia di Savona sul confine con la provincia di Cuneo e a 5 km dal casello autostradale della Savona – Torino. Il fondo valle dove oggi risiede il Comune è bagnato dal fiume Bormida che continua poi la sua corsa verso Cortemilia (CN). La storia del borgo è indissolubilmente legata al Castello del Carretto un importante presidio militare atto al controllo del territorio costruito sulle rupi a strapiombo ben visibili percorrendo la strada provinciale tra Millesimo e Cengio. I primi documenti attestanti le sue origini risalgono al 1200 d.c, quale possedimento dei Marchesi del Carretto, la sua funzione era controllare le vie del sale che dal porto di Finale Ligure collegavano il mare con l’entroterra e le alpi marittime. Quindi un territorio d passaggio, di dazi e dogane già dai tempi dei Romani quando queste dolci colline caratterizzate da interminabili muretti a secco erano vocate ala coltivazione della vite basti pensare alla vicina località Roccavignale il cui nome testimonia precisamente il passato vitivinicolo. Del Castello oggi ne rimangono le cinte murarie e le rovine cariche di suggestioni legate a innumerevoli battaglie . Nel 1639 abbiamo testimonianza dell’ultimo assedio da parte delle truppe Spagnole con il Castello presidiato dai Franco Piemontesi asseragliati al suo interno. In questa funesta occasione il borgo intero venne messo a ferro e fuoco. Nemmeno la Chiesa Parrocchiale si salvò dalla furia della battaglia e venne ricostruita negli anni a venire. I lavori terminarono nel 1662, questa data simbolo di rinascita è oggi diventata marchio distintivo del Comitato di Recupero Beni Architettonici del Borgo che negli ultimi 20 anni si è prodigato per la salvaguardia e riqualificazione del Santuario dedicato alla Natività di Maria Vergine.

Oggi questo monumento storico dopo numerosi interventi di restauro è tornato al suo splendore e viene aperto per funzioni e visite guidate. Nelle vicinanze della chiesa di notevole interesse troviamo il Cimitero di epoca Napoleonica anche esso oggetto di prossimi interventi di recupero.

Di seguito una parte dell’archivio manifesti sulla Festa di Cengio Alto ed un’intervista al compianto Davide Montino dell’estate 2010

Il senso della Festa intorno alla vecchia Parrocchiale di Cengio Alto

Intervista al prof. Davide Montino, per la rivista Bomidea

Estate 2010

Negli ultimi anni la festa della N.S. Vergine, con la processione della statua per il paese, che si svolge nella prima domenica di settembre, ha ripreso vigore. Viene celebrata con una certa partecipazione, sia per quanto riguarda la funzione religiosa, che per quanto concerne la festa vera e propria: i balli, i giochi, la cena alla sera. Il perché di questa ripresa va ricercato nella volontà di alcuni giovani e di alcune persone del borgo, che hanno ripreso l’abitudine, semplicemente, di riorganizzare l’evento, di invitare amici e parenti, di prestare qualche ora del proprio tempo per fare lavori di montaggio, per preparare il cibo, etc…

Se vogliamo dare una spiegazione all’“affetto” che sembra esserci in paese per questa festa, dobbiamo forse rivolgerci alla storia recente di Cengio. Fino alla fine degli anni Venti del Novecento, infatti, il comune di Cengio coincide con quello che ora è il borgo di Cengio Alto. Tutta la sua storia e tradizione (il castello, la Chiesa, il Comune, le scuole etc…) è concentrata lì (ci sono, ovviamente, le frazioni, ma sono appunto tali). Nel 1927, una riforma amministrativa voluta dal fascismo ha creato nuove province e unito differenti realtà territoriali. In questo quadro, al Comune di Cengio viene annesso quello di Rocchetta (oggi frazione Rocchetta di Cengio), creando non poche rivalità tra le due comunità. Inoltre, sotto l’impulso dell’industrializzazione, negli anni Trenta inizia un sostanzioso sviluppo del paese a valle (quello che oggi è Cengio Bormida, o Capoluogo): qui viene trasferito il comune, vengono costruite le nuove scuole etc…, e anche la parrocchia di Cengio alto viene trasferita: meglio, si trasforma nella parrocchia di S. Barbara (l’attuale chiesa di Cengio Stazione, o Genepro). Anche qui non furono poche le resistenze. In altre parole: con l’accentramento amministrativo, lo sviluppo industriale, l’ingrandimento demografico del paese, Cengio acquista una nuova ed inedita fisionomia, che tra l’altro peserà sulla sua identità futura. In questo processo, la Parrocchiale di Cengio Alto, da luogo centrale del culto paesano, diviene una delle tante chiese di frazione (lo stesso cimitero cade in disuso), e questo spiega perché, negli anni, si sia perso il senso della festa, la sua importanza.

Per spiegare in termini più ampi l’interesse degli ultimi anni, credo si possa dire che matura all’interno dei fenomeni di riaffermazione identitaria locale che sono sottesi ai processi di globalizzazione ora in atto. Mi spiego: a seguito dalla fine del modello socio-economico di tipo fordista (la grande industria della produzione di massa, fortemente omologante, basato sull’idea del consumo senza fine, che razionalizza tempi e modi del lavoro, automatizza e serializza la produzione, etc…) c’è la tendenza a riscoprire la specificità di un territorio, e con esso una identità più particolare. Non più l’operaio-massa, l’impiegato-massa, la distribuzione-massa, ma gli uomini con le loro originalità. E questo si sente molto in una zona come la Valle Bormida, a grande vocazione industriale. Non a caso cominciano a nascere piccole e medie imprese, attente alla produzione biologica (liquori, formaggi…), si cerca di sviluppare la cultura e il tempo libero, i vari comuni tentano di darsi un’immagine “turistica” e dinamica. La festa di Cengio Alto sta dentro a queste trasformazioni culturali e dell’immaginario. Poi, ognuno potrà vederci quello che vuole. Io credo, però, che alla fine in tutte queste rievocazioni, feste patronali, sagre, etc… si cerchi un luogo della tranquillità, un luogo che protegga dai rapidi cambiamenti che sembrano sorprenderci in ogni istante. Se da un lato, però, queste occasioni di festa sono utili, hanno un forte valore socializzante, dall’altro bisogna fare attenzione a non cadere in un retorico “amarcord” dei tempi andati, o peggio ancora non vanno caricate di troppi significati psicologici e/o sentimentali. E per quanto riguarda gli aspetti antropologici – ma questa non è una disciplina di mia competenza – direi che vanno cercati nell’oggi e non nel passato. I significati, i simboli, le metafore sociali messe in atto in questo tipo di feste hanno a che vedere, in modo diretto e principale, con la società e la cultura attuali, e condividono poco di un retaggio storico di lungo periodo. Questo dal punto di vista generale, nell’insieme. Poi, chi partecipa all’evento può dare significati più profondi, appunto sentimentali o psicologici, ma questo attiene all’esperienza personale e non è possibile, dal mio punto di vista almeno, fare analisi o generalizzazioni.

I piccoli tesori di Cengio Alto

Anche un armonium, antico e raro strumento, nella chiesa del borgo

Davide Montino

La storia lascia le sue tracce, piccoli segni che parlano di uomini, di vicende umane e spirituali, di sogni di paure e speranze.

La piccola frazione di Cengio Alto, fino al 1927 capoluogo di comune, reca evidenti indizi di questo passato: dalle rovine del castello, roccaforte militare teatro di importanti battaglie tra il XVI e XVIII secolo, al cimitero neogotico, parzialmente recuperato dall’invasione di erbacce e arbusti, alla bella chiesa della Natività di S. Maria Vergine.

Il piccolo cimitero porta le impronte, imperiture, fatte di nomi e date, degli abitanti del paese, mostrando i segni dei tempi che ha vissuto: caduti della Grande Guerra, figli di emigranti messi a riposare nella loro terra natale, i nomi delle famiglie e le storie che nella memoria degli anziani quei nomi rievocano.

Ma è soprattutto la chiesa, sulle cui pareti si immaginano ancora i ricchi stucchi e colori, nella sua struttura barocca, a rappresentare un po’ l’orgoglio del piccolo borgo. Le raffigurazioni, tra cui il bel dipinto di San Carlo Borromeo, gli affreschi, la madonna lignea settecentesca, il confessionale “a muro”, le reliquie – che rimandano ad una religiosità popolare che ha bisogno dei segni tangibili del divino – compongono un quadro di piacevole armonia, ricco di suggestioni e di sensazioni: a piedi, girando per il borgo, si intuisce una diversa “geografia” del vivere, sepolta dal tempo ma sempre pronta ad affiorare, e la memoria e la fantasia viaggiano e recuperano suoni ed immagini ormai tramontati.

Discutendo di queste ed altre amene cose, durante la tradizionale festa di settembre, dietro l’Altare maggiore della chiesa, ci siamo imbattuti in una vera e propria sorpresa, un altro piccolo tesoro. Da tempo inutilizzato, se ne stava lì, a riposo, un vecchio e bell’armonium, strumento di musica sacra, dai tasti d’avorio. Una sorpresa che si aggiunge alle tante minute ma significative attrattive che offre quest’edificio sacro, arroccato quasi a guardia della piccola comunità che lo circonda.

Prima dell’avvento dell’elettricità le chiese erano un po’ diverse rispetto a oggi. L’illuminazione era data da candele e lumi, non c’era riscaldamento, le campane funzionavano solo grazie ad un campanaro incaricato o secondo ordigni meccanici complicati e dispendiosi, non sempre a disposizione delle pievi più piccole.

Uno degli sconvolgimenti maggiori è arrivato con gli strumenti musicali elettrici prima ed elettronici poi. Fino a una cinquantina d’anni fa nelle chiese funzionavano due strumenti: l’organo a canne e l’armonium.

Il primo è maestoso nel suono e nell’immagine. Generalmente posto sopra l’ingresso, con le sue lucenti canne incombe severamente dall’alto. Il secondo è più umile, sovente “nascosto” dietro l’Altare maggiore, ma non per questo meno degno di nota. Perché nelle chiese sovente si possedevano entrambi gli strumenti?

Il motivo è pratico. L’organo possiede una struttura massiccia, particolarmente complicata e delicata. Una o più tastiere, quindici, venti o anche più registri, una “pedaliera”, ovvero una tastiera da suonare coi piedi per i bassi. L’aria necessaria al suo funzionamento arriva da un “somiere” di pelle appesantito in modo da dare pressione costante. Il “somiere” viene alimentato da un mantice; prima dell’avvento dell’elettricità il mantice andava azionato a mano. In genere un ragazzino aspirante organista veniva precettato per questo incarico. Occorreva seguire attentamente la liturgia e iniziare a gonfiare il somiere un attimo prima che l’organista attaccasse.

L’armonium possiede una (o più) tastiere uguali a quelle dell’organo, ma anziché usare le canne usa delle ance metalliche, in questo è più simile alla fisarmonica. L’aria necessaria è data da due pedali posti sotto la tastiera. Mentre il musicista suona pedala lentamente e costantemente, soffiando aria nei mantici.

L’armonium possiede in genere meno registri dell’organo, per motivi di spazio, ma ha quasi sempre degli effetti, come il “vibrato” o il “gioco di terza mano”, dove, grazie ad un marchingegno, spostando con un ginocchio una leva, se si suona un tasto la macchina aggiunge di suo la stessa nota dell’ottava superiore.

In sintesi l’armonium funziona ancor oggi senza l’aiuto di nessuno e questo lo rendeva ideale per le liturgie minori, dove non c’era molta gente e l’organista rischiava di restare senza aiutante, oltre che per le prove del coro. Inoltre l’armonium, benché molto complicato e costoso, costava comunque sempre meno di un organo a canne, ed era molto più robusto. Le variazioni di umidità e temperatura (le canne sono quasi tutte metalliche e dalla loro lunghezza dipende la frequenza del suono), la delicatezza stessa delle canne e la loro composizione (una lega di piombo e stagno, che quando si ossida produce una sostanza dolciastra buonissima per i topi), l’improvvisazione nella quale troppo spesso eccedono persone di buona volontà e poca esperienza nella pulizia e riordino degli organi a canne fanno si che di questi strumenti vecchi e gloriosi, se ne salvino pochi in buone condizioni.

Gli armonium, fortunatamente, non si aprono con facilità, soffrono molto meno gli sbalzi di umidità e temperatura e forse attirano anche meno l’occhio del restauratore/ripulitore improvvisato.

Quello di Cengio Alto è un esemplare quantomeno non usuale da queste parti. Si tratta di un “Graziano Tubi”, ditta fondata nel 1860 situata a Lecco e Como. Lo strumento in questione possiede due tastiere da cinque ottave, tre registri per tastiera e diversi effetti. La ditta è tenuta in considerazione per l’alta qualità dei suoi prodotti, tanto che un esemplare di armonium costruito dalla “Graziano Tubi” fa bella mostra di sé nel museo storico di Bergamo.

Dobbiamo pensare a questi strumenti come parte del patrimonio storico e artistico del nostro paese per due buoni motivi. Per primo bisogna ricordare che chi abitava questi borghi non aveva grandi disponibilità economiche. Per la costruzione della chiesa si potevano dare giornate di lavoro, ma lo strumento musicale andava comperato, e caro doveva costare. Rappresenta quindi il frutto di sacrifici e risparmi di gente già abbastanza affamata e affaticata. In secondo luogo questi strumenti rappresentano di sovente delle rarità per intenditori, ma noi che siamo abituati ad avere arte da tutte le parti non li vediamo più.

Ed è un peccato. Uno strumento come quello di Cengio Alto va assolutamente riscoperto, valorizzato e soprattutto suonato, perché questo è il miglior sistema per tenerlo in vita. Probabilmente occorrerà solo fargli dare una spolverata da qualcuno che se ne intende, poi d’estate si potrebbe riscoprire con qualche buon concerto e forse risentire la sua antica e umile voce risveglierà il ricordo di coloro i quali quella chiesa vollero, edificarono e mantennero così come è arrivata fino a noi.

L’albero della cuccagna

In questo paese non voglio più stare / e passare così questa mia vita: / in altra terra me ne voglio andare. / Conosco un paese che qui vi presento: / è chiamato paese di cuccagna; / stia pure ad ascoltare chi lo voglia. / Il paese è proprio ben costruito. / Le case son coperte di frittate / e così i muri e anche le pareti; / porte e finestre son di panpepato / e da grosse travi sono attraversate / fatte di maiale arrosto / e molto ben levigate. (Anonimo, Canto popolare di storie straordinarie sul paese di cuccagna, curiose facezie, piacevoli da ascoltare, XVI secolo).

L’albero della cuccagna è esattamente la rappresentazione, al contempo reale e simbolica, di quel paese dell’abbondanza, di quel mondo capovolto che è stata, fin dal medioevo, una delle più potenti e resistenti “utopie popolari”. Un grosso palo conficcato nel terreno, unto di sapone o di grasso, in cima al quale sono appesi prosciutti, formaggi, salsicce, un’abbondanza difficile da raggiungere, giusto premio per chi riesce ad arrivare alla cima. Incarna il desiderio, maturato in anni di carestie e di alimentazione appena al limite della sussistenza, di un pasto abbondante, di un mondo dove non c’è lavoro e fatica, dove tutti sono uguali, un mondo opposto a quello esistente, un paradiso terrestre evocato nella sua potente materialità. Ma salire sull’albero della cuccagna simboleggia anche un viaggio, un percorso che va dal proprio mondo ad un luogo immaginario, in alcuni casi la vita stessa, fatta degli stenti tipici del mondo contadino, al termine della quale ci si aspetta il giusto premio, la compensazione di quello di cui si è stati privati durante l’esistenza terrena.

Attraverso la festa e il gioco si mette in atto una rappresentazione culturale che ritualizza aspettative comuni, desideri di giustizia che prendono le forme dell’uguaglianza culinaria, che ribadisce l’ordine esistente attraverso il ribaltamento carnevalesco, dove tutti sono ricchi e il potere è preso in giro.

Tutto questo rappresenta il tronco conficcato nel terreno che, nella fantasia delal festa, diviene l’albero di Cuccagna, vero simbolo della convivialità e della celebrazione contadina, legate alla terra, che per secoli è stato il fulcro delle feste di paese di tutta Europa, e che qui riproponiamo nell’idea che sia ancora un modo per unire e mettere insieme le persone in un momento di allegria condivisa.